lunedì 29 agosto 2011

Pizza al foi gras

Fantastica la mia radio! Oltre a trasmettere praticamente le stesse canzoni del mio i pod, mi fornisce sempre qualche spunto divertente. Mica per niente si chiama Radio Numberone!
Stamattina Emilio Bianchi ha letto una notizia riportata sul Corriere che mi ha lasciata un pò così: il Ministro dell'economia francese ha deciso di imporre una nuova tassa. E fin qui...
L'ha chiamata "tassa sull'obesità" ma riguarda solo ed unicamente le bibite gasate con l'aggiunta di zucchero. Avete capito bene. La Francia ha tassato la Coca Cola.
Ora. Premesso che io avrei sollevato una rivolta popolare che Luigi XVI se la sognava, il conduttore faceva notare come il Corriere (e tutti noi) si chiedesse perchè mai la tassa sull'obesità incidesse sulla Coca Cola e non, che ne so, sul foi gras. Il grasso del fegato d'oca amalgamato nel burro non fa forse ingrassare? Non ostruisce le arterie?
Allora ecco che le due correnti dottrinali tornano a scontrarsi sull'annosa questione "Libertà della persona o tutela delle casse pubbliche attraverso il controllo (abbastanza buonista) della salute?" Eh si, perchè se io mi imbottisco di fegato d'oca e mi viene un infarto influisco sulle casse della sanità pubblica tanto quanto uno che, poveretto, ha un infarto ma si nutre solo di sedano crudo, ma c'è chi ritiene che siccome io, come dire, me la sono cercata, merito meno che vengano spesi soldi pubblici per curarmi. Lo stesso principio che ci spinge a chiederci: "un alcolizzato ha meno diritto di ricevere un trapianto di fegato di uno che ha, che ne so, un tumore?".
Altro fronte della questione era: "quanto, da 1 a 10, è ipocrita tassare prodotti gestiti e distribuiti da multinazionali estere e non quelli della stessa natura prodotti da imprese francesi?".
Il dubbio sorge ampliando il discorso ad altre tasse imposte di recente dal ministro francese: quella sulle sigarette e quella sui superalcolici. Si. Tutti tranne il rum. E perchè il rum no? Perchè il rum è prodotto con la canna da zucchero che viene coltivata nei caraibi da alcuni produttori francesi nostalgici del periodo coloniale.
Ecco, qui mi sento di fare un discorso diverso: mettiamoci per un attimo nei panni del Poverogiulio (tutto attaccato, ormai è diventato un unico nome) che si trova tra capo e collo la più grande crisi dei mercati dal 1929. Ormai le ha provate tutte, si è perfino dovuto tagliare lo stipendio. E' arrivato anche a concepire il ridimensionamento del menù del ristorante del Senato.
Gli rimane solo da tassare gli italiani grassi. Allora il Poverogiulio penserà che siccome i carboidrati gonfiano bisognerà tassare i carboidrati. Quali carboidrati sarà più conveniente tassare in Italia, le baguette o le pizze?
Per quanto sia ipocrita tassare tutti i superalcolici tranne il rum perchè è prodotto dai francesi, ne vogliamo proprio fare una colpa? Cioè, se io mi trovassi a dover risollevare l'economia italiana cercherei di promuovere i prodotti interni, provvederei a tassare prima le baguette della pizza. Poi si finirà col tassare anche quella, ma intanto...

domenica 28 agosto 2011

L'onda e lo scoglio

Scogli o onde? Questo è il problema. Siamo scogli o onde? E' la domanda che mi sono posta stamattina. Siamo dura roccia ancorata alla razionalità, fermi mentre tutto intorno a noi si muove, o siamo onde di irrazionalità che dondolano e si infrangono sulla spiaggia? Curioso il fatto che pensando a questa immagine mi sia figurata un mare in tempesta. Lo scoglio sempre fermo lì in mezzo, ma le onde che lo circondano sono agitate, nere e scure, inquiete e rabbiose. Innanzitutto mi chiedo se sia più difficile fare l'onda o fare lo scoglio. L'onda è peregrina, non sa dove finirà, si schianterà contro una parete rocciosa, rotolerà sulla spiaggia dissolvendosi in spuma, oppure dondolerà nel mare, senza meta, nella più totale insicurezza. Lo scoglio è sempre lì fermo, vede il mare che si agita intorno a lui e si fa corrodere dal sale, ma è sempre sicuro della sua stabilità. Poi mi chiedo se sia più comodo fare l'onda o lo scoglio. L'onda è liquida, senza legami, lascia liberi i pesci di muoversi attraverso di lei, li influenza un pochino con il suo moto placido. Lo scoglio invece è qualcosa a cui ci si aggrappa nei momenti di tempesta, ma allo stesso tempo un sasso duro contro cui sbattere la testa.
Morale: siamo scogli o onde? Razionalità o irrazionalità? Ci aggrappiamo alla realtà o partiamo per la tangente? Innanzitutto cerchiamo di non fare di tutta l'erba un fascio. Intendiamoci, ognuno può scegliere di essere onda o scoglio (maiale o gallina, come diceva qualcuno...ok, la spiego brevemente: della gallina mangiamo le uova, del maiale mangiamo le costine. La gallina contribuisce, il maiale mette tutto se stesso. Bisognerebbe sempre chiedersi, in un rapporto umano, se si preferisce essere maiale o gallina), con i relativi pro e contro. E credo che il punto sia proprio questo. Dipende da noi, essere l'una o l'altra cosa. E' una scelta. E come tale va seguita con coerenza. Scegliere di essere onda, però, ha una conseguenza in più: che seguire coerentemente la filosofia dell'onda ti porta all'incoerenza, creando un circolo vizioso e confuso. Ma chi l'ha detto che in un mondo di scogli non vada bene anche essere un pò incoerenti? Credo che questa potrebbe essere una delle sfide più grandi per me: essere onda, essere incoerente, fare qualcosa completamente privo di senso, e magari contraddirmi un secondo dopo. Alla fine solo essendo incoerenti si riesce ad essere veramente liberi? E' questa la chiave? E cosa succede quando la mia incoerenza incontra uno scoglio, o meglio, quando la mia libertà incontra quella di qualcun altro? Mia nonna diceva che la libertà di ognuno finisce dove comincia quella degli altri. Io mi sono sempre sentita presa per i fondelli da questa massima, perchè, per come sono fatta, la mia libertà nemmeno comincerebbe, perchè sarebbe circondata dalle libertà di tutti gli altri. E allora quando sarebbe il mio turno? Quando tocca alla mia libertà? "E lasciati andare!" direbbe V. Già. Fare l'onda, almeno per un pò, per vedere com'è dondolare (anche se soffro di mal di mare), essere egoista, impedire agli altri di attaccarsi come cozze, lasciare scivolare via tutto.
Poi stamattina, in maniera del tutto inconsapevole, V. ha detto una cosa che mi ha acceso una lampadina. Mi stava dicendo che la sveglia del cellulare non ha funzionato. Che dovrà portarsi una sveglia vera a Parigi. E io le ho detto: "Ma perchè, a Parigi ti devi programmare la sveglia? Sei in vacanza, dormi quanto ti pare! (Leggi: Fai l'onda)" e lei: "Si, ma devo girare, fare, vedere! E poi devo andare ad Euro Disney, devo svegliarmi!".
Allora ho pensato: eccolo! Eccolo il cancello della mia libertà, l'argine della mia scelta: lo scopo.
Perchè fare l'onda fa paura, il mare è grande, la tempesta è potente e il vento è sferzante. Fare lo scoglio è terribilmente noioso, e ha la controindicazione di essere continuamente consumati dal sale e dalle odiate cozze. Ma se si ha uno scopo, se si corre verso qualcosa, come una corrente, si riesce ad indirizzare la potenza dell'onda verso qualcosa che può farci sentire meno sperduti, meno in balia di noi stessi, meno frustrati. Si riesce a sopportare meglio il fatto che gli altri si appiccichino allo scoglio come gli antipatici frutti di mare, pur di raggiungere lo scopo.
E se subentra la quotidianità, a spargere il suo velo di noia e di immobilità su tutto, sta solo a noi smuovere le acque. Ci giustifichiamo con mille alibi: non ho tempo, sono stanca, devo studiare, devo lavorare, è colpa degli altri, devo devo devo.......non c'è devo che tenga. E' faticoso, è difficile e spesso richiede uno sforzo immenso, ma è solo la tensione verso qualcosa, la nostra volontà, che ci tiene a galla nel mare della quotidianità (che, per inciso, è un mare sempre in bonaccia).
Ma bisogna volerlo. Bisogna tenere la testa fuori e continuare a nuotare anche con i crampi, senza aspettare che arrivi Mich di Baywatch con il suo salvagente-supposta a tirarci fuori. Certo, nuotare verso qualcosa è più stimolante ma ogni tanto credo che sia già un miracolo mantenersi a galla e non lasciarsi andare alla tentazione di farsi sommergere, quando arriva il momento in cui nuotare fa talmente male che l'idea di lasciarsi coprire dal silenzio dell'acqua non fa più tanta paura.

venerdì 26 agosto 2011

Il panico Capita

Oh-mio-Dio. Non so se anche voi state assistendo allo stesso spettacolo che si propone fuori dalla mia finestra in questo momento (spero per voi di si). Sta piovendo. Non pensavo che, dopo l'estate che ha fatto quest anno, l'avrei mai detto ma... sta piovendo evviva!
Due deboli gocce, odore di asfalto bagnato e raggi di sole che penetrano attraverso le nuvole ma sta piovendo!
Piove con il sole (c'era anche una canzone dello Zecchino D'Oro che si chiamava "Piove con il sole" e credo che fosse di una bambina russa, bisognerebbe verificare).
Comunque con questo caldo incompatibile con la sopravvivenza della razza umana (almeno di quella stabilmente stanziata sulle Prealpi lombarde), passa la voglia di fare tutto. Compreso mangiare (che per me potrebbe rivelarsi una fortuna..). Ovviamente, la legge immutabile che regola le nostre vite (il Destino, direte voi. No, la legge di Murphy, dico io) ha voluto che questi insignificanti frutti del fenomeno di evaporazione e condensazione dell'acqua precipitassero dal cielo nell'istante esatto in cui la vaga idea di lavare la mia macchina ha bussato all'anticamera del mio cervello. Da ieri, infatti, posso dire senza mentire che la macchina frena! Oggi volevo poter dire che è pulita. Invece ora è di un delicato color panna chiazzato di viola con un piacevole effetto spruzzo, e le fiancate che sembrano trapiantate da un mezzo che ha attraversato il Rally del deserto...
A proposito di Rally, tra qualche settimana ricomincia la (mia) stagione sportiva, alla faccia di quelli che mi prendono in giro, alle spalle di chi mi annovera tra i praticanti di sport sfigati. la prossima gara a Lumezzane segnerà il giro di boa. Un anno esatto da Top driver. E son soddisfazioni (soprattutto visto come sono andate le ultime gare di maggio-giugno..). Comunque Lumezzane, l'anno scorso, è stata la dimostrazione della mia teoria secondo cui è il panico a giocare un ruolo decisivo nella dicotomia tra vittoria e sconfitta: ovviamente troppo panico ti porta a non capire più nulla e a confondere il bottone della sdoppiata con la levetta per aprire i deflettori, oppure a cominciare la gara convinto di aver controllato tutto, salvo accorgerti al primo tubo che non avevi collegato il cavo del pulsante con il Blitz...Ma una dose di panico accettabile, quel tanto che basta a far battere il cuore, tremare un pò le mani e asciugare la bocca, quella che ti fa spalancare gli occhi, bere 5 caffè prima di partire e ti impedisce di comunicare con qualunque essere umano senza cercare di staccargli la testa a morsi, beh quello è un panico sano. E immaginate la mia faccia, quando in mezzo alla gara, dopo una partenza niente male, mi accorgo con sgomento che il segnale della batteria del Trip lampeggia e realizzo di aver dimenticato di metterlo in carica durante la notte. Sta di fatto che il panico era tale che mi sono letteralmente inventata la strada, tenendo il Road book come vago riferimento e stabilendo le distanze a occhio, e il mio pilota non si è accorto di nulla. Sono magicamente riuscita a non sbagliare strada (cosa che non mi capita nemmeno quando ho due Trip a disposizione e la massima concentrazione) e sdoppiare bene nello stesso momento. Cioè, wow! Questo si chiama panico sano!
Sono cose che capitano una volta (se ti va bene) ogni tantissimo. Spero che Lumezzane (l'anno scorso si contendeva la testa del "Comuni sfigati d'Italia Challange" con Gropparello) porti bene e capiti di nuovo! D'altronde, come insegna Missincat in altro contesto (andate a sentirla è brava!)  "capita"!

domenica 21 agosto 2011

L'emozionante vita da spiaggia

Ah...Che bello essere qui! Il mio blog! Mi mancava un pò...Si, perchè in questa settimana di vacanza (non ancora finita, per giunta) ho avuto una serie di pensieri pressanti e nessuna valvola per sfogarli. Perchè in fondo questo blog è il luogo dei pensieri inascoltati, quelli che nessuno ha voglia di sentire al telefono o durante un aperitivo, ma che mi sento di comunicare al mondo lo stesso. In fondo chi si prende la briga di venire a leggere i miei pensieri sul blog lo fa sua sponte, mosso da un seppur minimo interesse personale, che magari non avrei saputo risvegliare a voce. Dunque ecco qui le mie riflessioni sull'ultimo libro che ho letto (meglio, sto ancora leggendo): "la mappa del tempo" di F.J. Palma., 2011. Titolo evocativo e trama avvincente. Due pecche: la traduzione (raramente ho letto libri tradotti peggio...voglio dire, passino le infelici scelte di adattamento, ma gli errori di grammatica ce li risparmiamo volentieri..) e alcune scelte, come dire, di ritmo. Ci sono passaggi leeeeentissimi di dubbia utilità narrativa e brevissime descrizioni dei punti cruciali e dei colpi di scena. Morale: una grande potenzialità mal sfruttata (per quanto la storia sia comunque piacevole e dotata di un disincanto in cui mi sono ritrovata molto).
Ma non ho passato la settimana immersa nella letteratura, come al solito. Ho trascorso il tempo cercando di capire i ritmi della città. Venezia è il regno dei clichè, il tempio del luogo comune. Qui si possono trovare tutti, ma proprio tutti gli stereotipi che contraddistinguono noi italiani: se cercate "pizza-pasta-mandolino" siete nel posto giusto! Mi chiedo perchè i professori di economia politica fatichino tanto a fare esempi di mercati nei quali viga la concorrenza perfetta: a Venezia il mercato delle maschere di cartapesta, per esempio, è in concorrenza perfetta, oppure quello delle inutili statuine di vetro, o quello della paccottiglia, come le gondole di plastica che ondeggiano e si illuminano e suonano "O' sole mio" (che poi, cosa cavolo c'entra "O' sole mio" con Venezia?). Qualunque tipo di inutile orpello che desideriate, qui c'è. Qualunque pacchianeria assolutamente priva di scopo qui trova la sua naturale ubicazione. Qualunque momento della giornata, ogni quartiere, ogni vocolo puzzolente è organizzato al fine di rendere piacevolmente banale il soggiorno di ogni turista. E il numero di turisti è impressionante. Venezia non ha abitanti suoi, ha i turisti. Un popolo a parte che si accontenta di vedere finte tipicità, di mangiare finte pizze e di comprare finti manufatti originali made in China.
Ma non solo! I turisti accettano di trasferirsi da una zona all'altra della città, magari carichi di valige dotate delle più avanzate tecnologie di spostamento (alcune hanno un numero di rotelle...secondo me sono anche cingolate..), a bordo di barconi strapieni di gente inondati dal sole fotografando ogni singola pantegana che si gode il caldo alla fermata Giardini.
Accettano di pagare cifre astronomiche per bere un caffè in Piazza S. Marco, accompagnati da un'orchestrina che, piegata anch'essa ai dettami delle moderne necessità del turismo, è passata dai classici della musica di ogni tempo ai classici della musica riconoscibile in ogni angolo del mondo, riducendo il repertorio a pochi selezionati brani: "O' sole mio" (immancabile), "La cucaracha" e la colonna sonora di "Tutti insieme appassionatamente". Allucinante.
E il turista non si limita a voler visitare la città, i canali e i gondolieri (sempre vestiti all'ultima moda con maglietta a strisce e cappellino di paglia, a cui si ispirano molti padri di famiglia giapponesi), no! Vuole vedere anche il mare, il Lido, i luoghi del Festival del cinema. E allora finisco con l'essere obbligata ad ascoltare una surreale conversazione tra una famigliola francese e la barista della nostra spiaggia (una poveretta di 70 anni che non parla una parola di italiano, figuriamoci di un'altra lingua che non sia il dialetto veneto..). La mamma francese voleva una macedonia, un'insalata di riso, due panini e una coca. Il papà francese indicava picchiando sulla vetrinetta ciò che la moglie cercava disperatamente di spiegare a cesti alla barista urlando -Salade de fruit! salade de fruit!. Ora. Se sotto allo scaffale con le macedonie c'è scritto "macedonia", cara mamma francese, cosa ti costa dire "macedonia"? perchè se io vengo a Parigi e ti chiedo una "macedonia" indicandoti la "salade de fruit" col cavolo che mi dai la mia macedonia! E la povera barista, che sfoggiava una lingua angloveneta fornmata da anni di contatti con i turisti cercava di spiegare che i panini avevano dentro la cotoletta di pollo urlando -cicche! chicche!. e la mamma -Oui oui! trì! Trì svp! Alla fine la transazione si è conclusa, la mamma francese è riuscita a decifrare il - tertisis- della barista e ha pagato quei benedetti 36 euro.

martedì 2 agosto 2011

La decade della pace dei sensi

Ieri ho inscatolato decine di migliaia di libri e altre cose che hanno fatto parte della mia quotidianità negli ultimi anni. Un lavoro immane. Faticosissimo, a livello fisico proprio (infatti oggi ho un mal di schiena assurdo). Forse la stanchezza, forse il male ai muscoli mi hanno impedito di rispondere per bene a chi ieri mi parlava di gap generazionale, o meglio di qualcosa che chiamerei "lotta tra decadi".
Ripensandoci oggi, col mal di muscoli sempre presente ma col cervello un pò più sveglio, ho elaborato una teoria. Meglio, questa teoria l'avevo già elaborata, ma me ne sono ricordata solo stamattina, in macchina, mentre ascoltavo Vasco (tra l'altro trovo che ci sia qualcosa di ancestrale in Vasco).
Il tema della discussione, forse generato da quel minimo di "orgoglio di decade" che caratterizza tutti noi, verteva sul fatto che gli anni '90 sono stati un decennio intellettualmente morto, dal quale è nata una generazione di rimbambiti tra i quali si salvano in pochi.
Gli anni '70 e '80, invece hanno visto passare diversi movimenti culturali (parliamo di cultura in generale, ma anche di cultura metropolitana), movimenti politici, stream ideologici.
Sarà perchè mi annovero nella generazione di smidollati che è cresciuta negli anni '90, e ho l'arroganza di pensare che non siamo stati poi questo gran fallimento.
Analizziamo la situazione.
Per quel che mi ricordo, i miei genitori hanno sempre lavorato. Entrambi. E siccome la bambina piccola da qualche parte va pur lasciata andava a finire che rimanevo interi pomeriggi in ufficio, oppure a scuola a tener compagnia alla suora portinaia (che in tutto quel tempo poteva almeno insegnarmi a ricamare, invece si faceva i suoi centrini da sola..). Ma la maggior parte delle volte ero a casa della nonna, o a casa di una vicina che aveva due figlie della mia età. Sta di fatto che la miglior compagna della mia infanzia è stata la televisione. Credo che questa cosa valga per un numero tale di ex bambini che hanno visto tutti le stesse cose, cresciuti tutti dagli stessi modelli e tormentati dalle stesse parole ripetitive, che già per questo si potrebbe parlare di movimento culturale. Ma di più. Se guardiamo i modelli che hanno segnato la mia generazione televisiva, non ce n'è uno originale. Mi spiego. Gli anni '90 sono stati un riflesso nostalgico degli anni '80. I palinsesti costituivano praticamente le repliche di ciò che genitori e fratelli maggiori avevano già visto e da cui erano stati a loro volta influenzati. Allora mi chiedo: se un movimento culturale propriamente detto è diffuso da mezzi di stampa, da libri, da correnti artistiche etc, perchè una generazione forgiata sul mezzo di comunicazione "televisione" non dovrebbe godere dello stesso rilievo culturale? Perchè guardando le cose come stanno, il mio interlocutore aveva anche ragione a dire che non abbiamo avuto dei veri movimenti, la pace dei sensi, negli anni '90. Niente ideologie politiche, niente giovani in piazza come negli anni '70, niente wind of change. Ci restava solo la televisione, quella scatola attraverso la quale vedere il mondo (finto credendo che fosse vero). E' altrettanto vero che la televisione è una invenzione che risale al 1950 circa, ma allora c'era anche altro. Quando non c'è più nulla rimane lei. E allora l'unico movimento che la società riesce a dare al cervello dei giovani passa per un cavo. E a ben guardare le esperienze che accomunano tutti quelli della mia generazione, quelle cose che tutti ma proprio tutti possono dire di aver visto o fatto, riguardano la scatola magica (fate il seguente esperimento: prendete un venti-due-treenne e intavolate un discorso tipo "ti ricordi quando...". Si finirà immancabilmente a parlare di Mila e Shiro. o di Ok il prezzo è giusto. Di quelle cose che richiamano l'infanzia in maniera rassicurante).
Che poi, voglio dire, senza svilirci completamente, si può dire che gli anni '90 sono stati protagonisti di un generalizzato "nostalgismo" confusionario. J Ax (grande esempio...) diceva in una sua canzone (funkytarro 1996): "Ho visto l'era Punk, quella metallara, quella dark, quella paninara, quella dei finti ricchi, quella dei finti poveri...." e alla fine si riconosceva in una sorta di ibrido, il Funkytarro ("il tamarro è sempre in voga perchè non è di moda mai"), formato sugli stereotipi mediatici del tempo fusi insieme ("sono trash come la Marini e Adriano Pappalardo"). E infatti non c'è un vero e proprio gruppo predominante (ma credo che non ci sia stato in nessuna epoca), uno in cui si riuniscono ideologie. Ci sono solo gruppi uniti dal fatto di immedesimarsi nello stesso stereotipo mediatico (qualcosa che chiamerei la "sindrome della velina e del calciatore"). Chi non riesce a riconoscersi in uno stereotipo è tagliato fuori. E siccome paradossalmente queste sono le persone alle quali rimane solo la propria personalità, va a finire che questa personalità si sente smarrita in se stessa, priva di modello, troppo giovane per aver letto le istruzioni per l'uso della libertà mentale, e finisce schiacciata o rovinata dalla mancanza di stereotipi.
Mi fermo, altrimenti il flusso di pensieri in libertà chissà dove mi porta. E poi ho fame.